risvolti psicologici nei rapporti tra giovani uomini e giovani donne (cara ti amo)

di maia, 7 Settembre 2007

Ne stavo giusto parlando con un amico (molto in gamba, davvero, non a caso mi dà sempre ragione), di qual è il problema nei rapporti fra giovani uomini e giovani donne nel mondo d’oggi.

Magari tu sei lì, adocchi uno che non ti sembra troppo male, almeno non troppo grezzo.
Insomma, uno con un quoziente intellettivo appena superiore a quello di un uovo sodo.

Gli fai il sorriso d’ordinanza.
Risponde.
Gli fai lo sguardo d’ordinanza.
Risponde.
Ma ancora prima che lui provi l’approccio d’ordinanza, nel momento stesso in cui ti accorgi che sta per aprire bocca, ti rendi perfettamente conto, SAI che sta per dire la cosa sbagliata.

Non è giusto fare di tutta l’erba un fascio, gli uomini non sono tutti uguali. E infatti non dicono tutti la stessa cosa sbagliata, ognuno dice la sua.

C’è quello pratico (ciao! Andiamo da te, che da me ho appena ridipinto i muri).

Quello sicuro di sé (bimba, io ti farò impazzire, lo sai?).

Quello sincero (pensavo… non sei bella come mi pareva da lontano, ma che ne diresti di fare due passi insieme?).

Quello premuroso (sai, non dovresti truccarti così tanto, ché non ti dona. E cambia fard, quel colore sotto queste luci non fa un bell’effetto).

Quello filosofico (ma secondo te la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere la vita?).

E poi il timido, il simpatico, il poetico…

Ma, comunque sia, tu sai che ti dirà una cosa che te lo farà odiare per sempre. A meno che non sia bellissimo.
O molto ricco.
Meglio ancora se entrambe le cose insieme.

E allora mi chiedo, come è possibile riuscire a sbagliare così sistematicamente l’approccio?
Eppure una volta c’erano gli uomini conquistatori, ammalianti, fascinosi, quelli per cui le ragazze facevano a spillonate… dove sono adesso? Non si tratterà mica di una leggenda metropolitana?
E se c’erano, come mai non esistono più?

Secondo me è tutta colpa della società contemporanea. Questo continuo bombardamento mediatico che propone modelli vuoti, una visione distorta e utilitaristica dell’uomo e della donna…
Oddio! Ho perso il controllo, stavo parlando come un opinionista di vespa!

Provo con parole mie.
Per me si guarda troppa tv.
Sai, quei film e telefilm in cui tutto è facile e immediato. Due si incontrano. Si guardano. Si sorridono. Parte una musica suadente (magari il miglior marvin gaye) e loro, senza quasi parlare (fosse questo il trucco?), si ritrovano a letto insieme. E son fuochi d’artificio.
Poi si pensa che vada così anche nella realtà.
Quando invece, se ti va bene, di sottofondo c’hai masini…

il bell’antogno

di maia, 17 Luglio 2007

Ieri pomeriggio ho letto che su la7 avrebbero dato “Il bell’Antogno”.
Perfetto, mi son detta. Cosa c’è di meglio di una seratina con la casa tutta per me, una bella cenetta in solitudine e un film biografico sulle gesta di Antognoni? Fra l’altro deve essere anche ben riuscito, visto che l’ho sentito nominare più volte…
E guarda gli attori! L’Antogno viene interpretato addirittura dallo strepitoso Marcello Mastroianni degli anni sessanta!
Certo, il film è in bianco e nero, ma gli spezzoni di partita saranno di sicuro quelli originali, a colori.
Con gli avanzi che avevo in frigo (una fetta di prosciutto crudo, una mela verde, acerba, una melanzana, che dall’aspetto pareva esser stata grigliata almeno un mese fa, mezzo limone, prezzemolo quanto basta) e l’ultimo pugno di riso rimasto, mi son preparata una cenetta coi fiocchi, mi sono apparecchiata l’enorme tavolo per uno, ho acceso la tv su la7 e mi sono apprestata a godermi uno spettacolo unico, per gli occhi e per il palato.

Già dopo i primi venti minuti del film, però, mi sono accorta che qualcosa non tornava. Più che l’epopea del bel biondo, quella assomigliava incredibilmente alla storia dei miei due anni e passa trascorsi col famigerato ingegnere.
Ho lasciato cadere letteralmente la forchetta sul piatto, cercando di non farmi accorgere che era ancora intatto (quella roba faceva davvero schifo, ma non volevo ferirmi) e mi son messa a seguire la vicenda a bocca aperta.
Santo cielo! A parte il fatto che non vivevamo a Catania, negli anni sessanta, che non eravamo sposati, che i nostri genitori non si conoscevano nemmeno, che non volevamo avere figli e che la gente intorno a noi in realtà se ne fregava di quello che facevamo, quelli eravamo noi!

E mi sono sentita in colpa.
Dio, se ero come la Cardinale, devo essere stata davvero stronza!

Poi una folata di vento ha spalancato la finestra. Mi son specchiata nel vetro.
No, decisamente non sono come la Cardinale.
E allora mi son messa l’animo in pace.

aggiornamento: più di un lettore mi ha giustamente chiesto di questa storia dell’ingegnere, che io ho dato per scontato tutti conoscessero.
errore imperdonabile. che rimedierò mandandovi qui.

l’importanza di chiamarsi Antogno

di maia, 8 Luglio 2007

curva fiesoleUn attento lettore mi chiede come mai i titoli di quasi tutti i miei post ricalcano quelli di film, di canzoni o di libri.

La risposta è molto semplice. Mi capita talmente spesso di perdermi in quei mondi, che ormai non riesco più a staccarmene. Mi ritornano alla mente ogni volta che racconto qualcosa e si insinuano dentro al racconto, spesso stravolgendolo. Così li ringrazio, citandoli.

Questa volta ho deciso di spingermi oltre e di raccontare, come il protagonista di un libro che mi assomiglia molto, la mia prima volta.

Non so quanti anni avevo la prima volta. Dovevo essere molto piccola perché ricordo che per guardare in faccia la gente dovevo piegare la testa all’indietro, fino a farmi male al collo.
Ricordo gli imponenti cancelli grigi, il buio vociante al di là di quelli, la confusione.
Ricordo l’omone all’entrata. Doveva avere dei baffi enormi o, almeno, è così che lo rivedo adesso. Ricordo i miei che mi lasciano la mano, mostrano i tagliandi e passano oltre e quel gigante che mi ferma e mi chiede, col suo vocione: “E te dove credi di andare, bimba?”.
Ricordo il mio spavento. Ricordo di aver cercato lo sguardo dei miei genitori, che mi osservavano sorridenti.
Aspetto una loro parola, che non arriva.
“Ce l’hai il biglietto?” mi fa l’orco.
Guardo disperata i miei, imploro con gli occhi il loro intervento.
E invece se ne stanno lì a guardarsi e a ridere.
“Sono con loro” dico indicandoli, ma devo aver parlato troppo piano perché l’orco non mi ha sentito e ripete chinandosi minaccioso verso di me “Allora? Dove credi di andare senza biglietto?”
A quel punto mi sento morire, un ultimo sguardo verso mia madre, anche se non mi aspetto più alcun aiuto, e con quanta più voce riesco a raccogliere sussurro: “vado a vedere Antognoni…”
Uno scoppio di risa di adulti intorno a me.
Anche l’omone ride, mi fa una carezza sulla testa e mi fa ”allora vai, piccina, se devi vedere Antognoni puoi entrare”.  

Del gran debutto ricordo poco altro.
Ricordo l’elettricità che mi circondava. Ricordo l’odore forte dell’erba. Ricordo con quanta cupidigia osservavo passare l’omino dei gelati. Avevo ricevuto un’educazione severa, avevo imparato presto a non chiedere mai. Aspettavo fiduciosa che notassero lo sguardo desideroso e l’acquolina che mi scendeva dalla bocca.
Ricordo di aver fantasticato di fare da grande la donnina dei gelati, tutta vestita di bianco e con quella bellissima borsa a tracolla piena di coni e bomboniere e chissà quante altre delizie.

Mi dicono che da allora ho visto tutte le partite in casa e molte anche in trasferta. Non ne ricordo nemmeno una.

Il primo ricordo veramente nitido è di qualche anno dopo. Mancava poco all’inizio della partita. Io e mia madre ci stavamo arrampicando sui gradoni della Maratona. Mia mamma aveva il pancione e arrancava nella salita. Era incinta di mia sorella più piccola. Ci eravamo avviate a cercare i posti, mentre papà parcheggiava. Quando alla fine anche lui è sbucato dalle scalette, mamma ha cominciato a chiamarlo sbracciandosi per farsi vedere: “Antonio. Antoniooo. Antoniooooo!”. Si gira un signore spazientito: “O signora, va bene che l’Antogno l’è bello, ma lo faccia almeno entrare in campo!”

Ps
Solo un anno dopo c’è stato lo scontro fra Antognoni e Martina.
Di quella partita ricordo tante cose. I cori, gli striscioni, la gente.
Ricordo il silenzio irreale che è piombato all’improvviso sullo stadio, una bolgia infernale fino a quel momento. Vedevo giocatori che ancora non riconoscevo correre verso quell’uomo, l’uomo "che fa aprire i cancelli", che rimaneva a terra, immobile. Il portiere avversario, il “cattivo”, mettersi le mani nei capelli. Sentivo gli spalti trattenere il fiato.
Ero ipnotizzata dalla scena. Mi rendevo conto che il momento era tragico, la tensione si avvertiva fisicamente, ma non come quando c’era un calcio di rigore contro. Mi son girata verso mia madre e l’ho vista stravolta.
Fino ad allora per me lo stadio era stato un posto colorato dove si canta tutti insieme, si impreca liberamente (compresa la zia professoressa) e si mangiano i gelati.

Da quel giorno sono diventata tifosa.

c’è amore nell’aria

di maia, 7 Giugno 2007

Love is in the air, come diceva una vecchia canzone (e la pubblicità delle scarpe). E non solo l’amore è nell’aria. Insomma, guardatevi intorno, è tutta un’orgia di sentimenti. Anche sui blog. Chi si interroga sull’amicizia, chi su un amore finito, chi sulla spiritualità riconquistata…

Anche io, nel mio piccolo, voglio contribuire con una riflessione.

Si è discusso a lungo sulla possibilità che anche gli animali provino sentimenti proprio come i noi. I padroni di cani e gatti e pesci rossi non hanno il minimo dubbio in proposito. Ma scommetto che anche i padroni di iguane vedono negli occhi della proprie bestiole la luce inconfondibile che solo un affetto sincero riesce ad accendere.
Beh, io la penso esattamente come loro.
Di più, son convinta che il regno animale non è l’unico toccato dalla grazia dell’affettività. Questo dono è troppo grande per essere destinato solo a pochi eletti.

Pensiamo alle piante d’appartamento. Quelle poverette, zitte tutto il giorno, chiuse in stanzette minuscole, il più delle volte male illuminate, senza niente da fare, alla fine muoiono d’inedia. Quanto più belle sono se le si riempie di coccole! Con che vigore crescono se ci parliamo, facciamo loro ascoltare un po’ di buona musica, le abbracciamo, ogni tanto allunghiamo loro una cicca o due (non troppe, il fumo fa male) e nel giorno della festa bagniamo appena appena le radici con un buon rosso!
Certo, sono difficili da interpretare, ma con un poco di applicazione secondo me riusciremmo ad intendere i messaggi che ci mandano.
Il mio ficus, per esempio, a quanto pare non apprezza molto il bebop. Me ne sono accorta perché, nonostante tutte le mie cure, si ostina a rinsecchirsi. Ma prima o poi lo trovo il disco giusto e allora… festeggeremo a champagne!

E perché fermarsi al regno vegetale?
Perché tenere fuori i pavimenti, le tegole, i muri, la grandine, che è penetrata nel mio ufficio con una violenza inaudita? Tutti quei chicchi, così gelidi, secondo me erano solo in cerca di un po’ di calore!
Chiamatemi pandemica (o panamerica, non ricordo), ma sono sicura che ci sia del sentimento in ogni cosa.

Me lo stanno confermando i miei denti.
Venerdì scorso ho strappato loro (o meglio, lo ha fatto il dentista) il fratello maggiore, quello del giudizio. E da allora non mi danno pace.
Tutta colpa della nostalgia.

La famiglia rompiglioni 3 – gli esordi

di maia, 25 Maggio 2007

Il motto della famiglia rompiglioni è buon sangue non mente.
Ed è proprio vero.
Chiunque nasca con sangue rompiglioni, non può che essere un perfetto rompiglioni.
Inutile sperare che la maledizione salti qualche generazione. Magari nei primi tempi, quando il nuovo rompiglioni è uno scricciolo appena nato o un dolcissimo bimbo dal sorriso seducente, ci si può anche illudere. Ma ben presto ci si deve arrendere alla dura realtà.

Prendiamo me per esempio.

Passai i primi anni di vita suscitando false speranze nei miei genitori.
Troppo piccola per andare all’asilo, mi lasciavano a casa con una sorella di mia madre, giovane e carina, che ci teneva molto alla mia formazione: appena arrivava, mi metteva in mano un giornale ed andava a discutere di non so quali problemi da grandi con un amico in camera dei miei.
Così io passavo lunghe ore nel seggiolone a giocare tranquillamente con un quotidiano, di solito la Nazione, a ridurlo in minuscole striscioline, disporle in composizioni simmetriche (avevo un precoce senso dell’ordine, peccato l’abbia altrettanto precocemente smarrito), per poi mangiarle con gusto.
Al rientro da lavoro, i miei mi ritrovavano nello stessa posizione in cui mi avevano lasciata, con una densa bavetta nero-inchiostro che mi colava dall’angolo della bocca ed un’espressione sazia e soddisfatta, come doveva averla Jorge mentre si mangiava Aristotele.
Mia zia, invece, la trovavano sempre un po’ scarmigliata e ansimante, come se avesse appena finito di correre. Quanto al suo amico, temo non siano mai riusciti ad incontrarlo.
Quando cominciai a rendermi conto che mangiare bistecche al sangue era molto più gustoso di quanto non fosse mangiare giornali, oltretutto di pessima qualità, decisi di utilizzare quei fogli in altro modo. E imparai a leggere. Quando cominciai anche a capire cosa stavo leggendo, decisi che da adulta non avrei mai comprato la Nazione.
Insomma, a tre anni ero il sogno di ogni genitore: silenziosa, tranquilla e letterata.

Fu all’asilo che cominciai a rivelare i primi sintomi.
In quella bolgia di mostriciattoli urlanti non potevo dedicarmi ai miei giochi silenziosi, anche perché le suore pretendevano di farmi socializzare con gli altri bambini. Volevano farmi giocare a tutti i costi al gioco della sedia. Quando, dopo mesi di studio, ne compresi il meccanismo (ero già allora una bimba molto analitica), decisi di buttarmi nella mischia. Così presi a picchiare ferocemente i più piccoli perché mi cedessero spontaneamente il loro posto. In fondo, perché affannarsi, quando potevo starmene comodamente ad aspettare che mi facessero sedere gli altri? Dopo una settimana il gioco fu abolito. Ero la più grossa e riuscivo facilmente a ridurre alla ragione anche i compagni più riottosi. Finiva che tutti rimanevano in piedi a rispettosa distanza, anche dopo che mi ero seduta.

Delle elementari ho ricordi poco significativi, tranne una lezione di educazione sessuale, che merita un capitolo a parte, ed il fatto che il compagno di classe di cui ero perdutamente innamorata faceva il filo alla biondina del primo banco. Da allora decisi di odiarla.
Divenne la mia migliore amica.
E presi una decisione che cambiò la mia vita: se proprio non piacevo al mio amore, allora non valeva la pena di piacere a nessuno! Fu così che intrapresi la carriera di prima della classe.
Nei restanti anni delle elementari ed in quelli delle medie, mi esercitai a fare la secchiona in maniera sempre più rigorosa.
Ogni giorno arrivavo a scuola conoscendo alla perfezione fino a sei capitoli in più rispetto a quelli assegnati. Alzavo sempre la mano, suggerivo ostentatamente quando venivano interrogati gli altri.

Al liceo la mia popolarità subì un’ impennata imprevista. Fra i miei compagni cominciò a girare la canzoncina “viva viva la rompiglione, la più amata delle secchione!”. Ma io non mi lasciai lusingare, conoscevo bene il motivo di tanto improvviso amore. Il compito di latino. Volevano che li aiutassi nelle versioni. E decisi di accontentarli.
Però feci pagar cara la mia condiscendenza. Passavo le versioni, è vero, ma le passavo tradotte in inglese.
Così la mia classe era l’unica in tutto l’istituto in cui, ad ogni compito di latino, gli studenti si presentavano col vocabolario d’inglese…

Ma non pensate male, non ero cattiva, ero solo… rompiglioni.
A parziale giustificazione del mio comportamento, devo dire che in quegli anni si infransero i due più grandi sogni della mia vita: fare la suora missionaria in Amazzonia e la cantante lirica nel resto del mondo. A cancellare il primo ci pensò il mio senso di sdegno verso l’eccessivo lassismo della Chiesa. Voglio dire, trovavo inammissibile che si consentisse ai bimbi di piangere durante le funzioni ed alle vecchine di fare le gare di velocità nel recitare il rosario. E, diciamocelo, tutte quelle gonne corte al ginocchio davanti all’altare…
Il secondo invece sbiadì da sé quando mi resi conto che aver imparato a suonare il piffero alle medie non mi qualificava come esperta musicale e che cantare a squarciagola le arie della regina della notte in una lingua ignota (che certo non era tedesco, visto che di quell’idioma conosco solo la parola “essen”) non faceva di me una cantante.
Quando poi i miei mi proibirono di cantare, pena l’espulsione perenne da casa, qualunque cosa, foss’anche l’inno della fiorentina, dovetti prendere atto del fatto che la voce non è la mia dote migliore.

E l’amore non è che andasse meglio.
La prima vera cotta la provai per il bello della spiaggia.
Era il ragazzo più conteso del paese in cui trascorrevo le vacanze.
Mi trovavo nella inusuale situazione in cui la padronanza del latino e dell’inglese non servivano a niente. In quel campo occorrevano ben altre doti. Delle quali ero totalmente sprovvista.
Con gli esponenti del sesso opposto non sapevo proprio come comportarmi.
Mancandomi quelle armi tattiche, prettamente femminili, che occorrevano per sbaragliare la concorrenza, decisi di invitare la biondina del primo banco perché mi mostrasse come fare. Lei ha sempre riscosso un enorme successo con gli uomini. La ospitai a casa mia. Sin dal primo giorno si mise all’opera e mi fece vedere come dovevo comportarmi con lui. Non ebbi il minimo dubbio sulla bontà dell’idea, finché non li vidi avvinghiati sulla spiaggia con tre metri di lingua in bocca.
Mi spezzarono il cuore.
Decisi di vendicarmi.
Feci loro da testimone di nozze.
(continua…)

falsi amici 2

di maia, 28 Aprile 2007

– Dio, che fai, piangi?

– No, nono, non piango. Cioè, ecco, solo un pochettino…

– Ancora? Ma santo cielo… devi smetterla!
Ascolta, lui era sposato, lo sapevi sin dall’inizio come sarebbe finita, mica avrai pensato sul serio che lasciasse la moglie!

– Sì, ero preparata a tutto questo. Però ora che è successo… E poi, dopo che ha detto quel “TI AMO”… era così convincente… io gli ho creduto! E ora a pensarlo lì, che magari si sta divertendo con la moglie… Mi concedi almeno di starci un poco male?

– Un poco si, è naturale, ma ora, santo cielo, esageri!
In fondo son già passate quasi ventiquattro ore!
Senti, se sapevo che effetto ti fanno i film d’amore, mica ti ci portavo al cinema.

come tu mi vuoi

di maia, 10 Aprile 2007
      

La donna che tu vuoi
è una donna vera, curata nei dettagli.
La donna che tu vuoi
indossa solo abiti provocanti, dallo spacco invitante, la gonna corta al punto giusto e tacco a spillo, sempre.
La donna che tu vuoi
indossa camicie da notte di impalpabile velo, anche in pieno inverno.

La donna che tu sogni
ha il capello perfetto, il trucco sempre in ordine, lunghi artigli rosso scarlatto per unghie.


La donna che tu desideri
emana vorace sensualità in ogni singolo istante della vita, senza pause.
La donna che tu desideri
è una donna flessuosa, dalle movenze feline.

La donna che tu vuoi
è LA DONNA!


A questo punto io mi domando: PERCHE’ INSISTI A VOLER USCIRE CON ME?

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