l’importanza di chiamarsi Antogno

di maia, 8 Luglio 2007

curva fiesoleUn attento lettore mi chiede come mai i titoli di quasi tutti i miei post ricalcano quelli di film, di canzoni o di libri.

La risposta è molto semplice. Mi capita talmente spesso di perdermi in quei mondi, che ormai non riesco più a staccarmene. Mi ritornano alla mente ogni volta che racconto qualcosa e si insinuano dentro al racconto, spesso stravolgendolo. Così li ringrazio, citandoli.

Questa volta ho deciso di spingermi oltre e di raccontare, come il protagonista di un libro che mi assomiglia molto, la mia prima volta.

Non so quanti anni avevo la prima volta. Dovevo essere molto piccola perché ricordo che per guardare in faccia la gente dovevo piegare la testa all’indietro, fino a farmi male al collo.
Ricordo gli imponenti cancelli grigi, il buio vociante al di là di quelli, la confusione.
Ricordo l’omone all’entrata. Doveva avere dei baffi enormi o, almeno, è così che lo rivedo adesso. Ricordo i miei che mi lasciano la mano, mostrano i tagliandi e passano oltre e quel gigante che mi ferma e mi chiede, col suo vocione: “E te dove credi di andare, bimba?”.
Ricordo il mio spavento. Ricordo di aver cercato lo sguardo dei miei genitori, che mi osservavano sorridenti.
Aspetto una loro parola, che non arriva.
“Ce l’hai il biglietto?” mi fa l’orco.
Guardo disperata i miei, imploro con gli occhi il loro intervento.
E invece se ne stanno lì a guardarsi e a ridere.
“Sono con loro” dico indicandoli, ma devo aver parlato troppo piano perché l’orco non mi ha sentito e ripete chinandosi minaccioso verso di me “Allora? Dove credi di andare senza biglietto?”
A quel punto mi sento morire, un ultimo sguardo verso mia madre, anche se non mi aspetto più alcun aiuto, e con quanta più voce riesco a raccogliere sussurro: “vado a vedere Antognoni…”
Uno scoppio di risa di adulti intorno a me.
Anche l’omone ride, mi fa una carezza sulla testa e mi fa ”allora vai, piccina, se devi vedere Antognoni puoi entrare”.  

Del gran debutto ricordo poco altro.
Ricordo l’elettricità che mi circondava. Ricordo l’odore forte dell’erba. Ricordo con quanta cupidigia osservavo passare l’omino dei gelati. Avevo ricevuto un’educazione severa, avevo imparato presto a non chiedere mai. Aspettavo fiduciosa che notassero lo sguardo desideroso e l’acquolina che mi scendeva dalla bocca.
Ricordo di aver fantasticato di fare da grande la donnina dei gelati, tutta vestita di bianco e con quella bellissima borsa a tracolla piena di coni e bomboniere e chissà quante altre delizie.

Mi dicono che da allora ho visto tutte le partite in casa e molte anche in trasferta. Non ne ricordo nemmeno una.

Il primo ricordo veramente nitido è di qualche anno dopo. Mancava poco all’inizio della partita. Io e mia madre ci stavamo arrampicando sui gradoni della Maratona. Mia mamma aveva il pancione e arrancava nella salita. Era incinta di mia sorella più piccola. Ci eravamo avviate a cercare i posti, mentre papà parcheggiava. Quando alla fine anche lui è sbucato dalle scalette, mamma ha cominciato a chiamarlo sbracciandosi per farsi vedere: “Antonio. Antoniooo. Antoniooooo!”. Si gira un signore spazientito: “O signora, va bene che l’Antogno l’è bello, ma lo faccia almeno entrare in campo!”

Ps
Solo un anno dopo c’è stato lo scontro fra Antognoni e Martina.
Di quella partita ricordo tante cose. I cori, gli striscioni, la gente.
Ricordo il silenzio irreale che è piombato all’improvviso sullo stadio, una bolgia infernale fino a quel momento. Vedevo giocatori che ancora non riconoscevo correre verso quell’uomo, l’uomo "che fa aprire i cancelli", che rimaneva a terra, immobile. Il portiere avversario, il “cattivo”, mettersi le mani nei capelli. Sentivo gli spalti trattenere il fiato.
Ero ipnotizzata dalla scena. Mi rendevo conto che il momento era tragico, la tensione si avvertiva fisicamente, ma non come quando c’era un calcio di rigore contro. Mi son girata verso mia madre e l’ho vista stravolta.
Fino ad allora per me lo stadio era stato un posto colorato dove si canta tutti insieme, si impreca liberamente (compresa la zia professoressa) e si mangiano i gelati.

Da quel giorno sono diventata tifosa.

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